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Padre Giuseppe Moretti
In attesa della stella della pace
Il padre barnabita Giuseppe Moretti, per molti anni cappellano a Kabul, racconta le fatiche e le speranze della piccola comunità cristiana nel Paese ancora incendiato dalla guerra
La chiesa è una piccola costruzione bianca di una ventina di metri per quindici dedicata alla Madonna della Divina Provvidenza. Sorge all’interno del complesso dell’ambasciata italiana a Kabul. Ed è l’unico edificio di culto riconosciuto dai governi afghani sulla base di un trattato bilaterale firmato il 3 giugno 1921. Padre Giuseppe Moretti, religioso barnabita, 79 anni compiuti da poco («Sono nato a Recanati, in provincia di Macerata, il 10 novembre 1938»), ripensa a quei Natali che l’hanno visto sacerdote cattolico nel cuore dell’islam. E confida: «Mi chiamavano il mullah cristiano, identificando in me colui che guida la preghiera dei seguaci di Gesù. Mi manca l’Afghanistan, non posso negarlo. Mi manca il presepe che preparavo non lontano dall’altare. Mi mancano i due alberi che addobbavo, uno fuori dalla chiesa e l’altro a casa mia. Mi mancano infine gli auguri sinceri che mi facevano i miei collaboratori afghani, musulmani osservanti, ma non per questo irrispettosi del nostro credo, delle nostre tradizioni». Padre Moretti pettina i ricordi aiutandosi con le foto salvate nel computer e sfogliando gli scritti che ha portato con sé, in Italia. È stato a Kabul tra il 1990 e il gennaio 1994, quando venne gravemente ferito il giorno dell’Epifania: «Sono vivo per miracolo. La guerra civile stava divorando la città. La nostra ambasciata era stata evacuata. Io mi riparai nei locali più protetti della nostra sede diplomatica da Capodanno in poi. Appena rallentavano i bombardamenti, uscivo per prendere del cibo. Celebravo su un altare appoggiato a una parete che il 6 gennaio 1994 venne squarciata da un missile. La Provvidenza mi aveva ispirato di dir Messa prima del solito. Tuttavia fui ferito alle gambe, al petto, a una spalla. Mi dissero che una scheggia aveva sfiorato la giugulare». Padre Moretti è tornato in Afghanistan nel 2002 e si è trattenuto fino al 2015. Ora è a Roma. «Mi ha sostituito un confratello molto colto e dinamico, padre Giovanni Scalese».
«La comunità cattolica internazionale è una “microscopica” minoranza in un Paese totalmente islamico. Essere credenti, praticanti e coerenti, insomma, richiede un enorme coraggio e una fede ben radicata». Padre Moretti non ha dubbi: «Gli afghani sono tradizionalmente rispettosi verso chi professa una fede diversa dalla loro, soprattutto quando vedono coerenza tra fede e vita. Ovviamente, vigendo la sharia (la legge coranica, ndr), è severamente vietata ogni forma di proselitismo e la conversione dall’islam ad altra religione può comportare anche la pena capitale. Per il dialogo interreligioso il tempo è ancora molto acerbo. Non esiste alcun afghano cattolico, almeno nessuno si professa pubblicamente tale».
UNA “PARROCCHIA” INTERNAZIONALE
«I fedeli che partecipano abitualmente alla Messa domenicale appartengono esclusivamente alla comunità cattolica internazionale, ma sono presenti fedeli anche di altre confessioni cristiane. La partecipazione alla Messa non è un atto convenzionale o di routine, ma di profonda convinzione, condizionata semmai dai frequenti allarmi, dalle disposizioni per la sicurezza dell’ambasciata d’Italia nonché dal continuo avvicendamento dei membri della comunità internazionale. All’inizio c’erano soprattutto europei, ora a frequentare la chiesa sono in particolar modo canadesi, statunitensi, latinoamericani, asiatici e africani. Mi ha addolorato la crescente defezione di francesi, tedeschi, spagnoli e italiani, salvo lodevoli eccezioni».
In base agli accordi con il Governo afghano, il sacerdote addetto alla cura spirituale della comunità cattolica internazionale dev’essere soltanto uno. Nel passato, la definizione giuridica corretta era quella di «cappellano dell’ambasciata d’Italia». Dal 2002, per volere del Papa, si parla di «Superiore ecclesiastico, ovvero Ordinario della Missione sui iuris in Afghanistan». In buona sostanza, una specie di vescovo. «Dal 2001 sono presenti alcuni cappellani militari cattolici dei contingenti Isaf-Nato», riprende padre Moretti. «Pur operando entro l’ambito loro proprio, sono pur sempre una presenza sacerdotale. Dal 2005 vi è una comunità di Gesuiti indiani, sacerdoti e non, membri della Organizzazione non governativa Jesuit Refugee Service. Sono in Afghanistan ufficialmente come operatori umanitari. Il loro campo d’azione è il mondo universitario, educativo e sociale, in collaborazione con la Caritas americana». Non sono i soli. «Le Petites soeurs de Jésus (suore ispirate al carisma di Charles de Foucauld, ndr), in Afghanistan ininterrottamente dal 1955, hanno prestano fino al febbraio scorso la loro opera come infermiere negli ospedali afghani. Amate e stimate dalla popolazione, non sono state osteggiate neppure dai talebani che pure sapevano chi erano e dove andavano a pregare. Dal 2004 operano poi le suore della comunità intercongregazionale dell’associazione Pro bambini di Kabul (Pbk), alla quale aderiscono 15 congregazioni religiose maschili e femminili; l’associazione è sorta per rispondere all’accorato appello di Giovanni Paolo II durante il Messaggio natalizio Urbi et Orbi del 2001: «Salvate i bambini di Kabul». La Caritas italiana ha dato un sostanziale contributo alla realizzazione del progetto. Nel 2006, inoltre, sono approdate a Kabul le Missionarie della Carità, più note come le suore di Madre Teresa: assistono famiglie povere, orfani, bimbi disabili, ragazze analfabete cui assicurano un’adeguata istruzione. Avevano posto come condizione irrinunciabile per venire in Afghanistan il mantenimento del loro tradizionale abito religioso. Così è avvenuto. Tra le realizzazioni non posso tralasciare, infine, la “Scuola di Pace” a Tangi Kalay, un villaggio vicino Kabul, da me ardentemente e tenacemente voluta».
È l’ennesimo Natale di guerra, in Afghanistan. «Se ne parla molto meno, ma è così purtroppo», conclude padre Moretti. «La tradizione vuole che uno dei Magi venisse proprio dall’Afghanistan, forse uno zoroastriano. Non perdo la speranza che quella stella torni a brillare nei cieli tersi di quella splendida nazione, finalmente in pace».
Testo di Alberto Chiara - Foto di Paolo Siccardi