N. 6 - 2018 11 febbraio 2018
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Padre Carmine Arice

La mia missione per i malati del Cottolengo

«La Chiesa è chiamata ad affiancarsi alla sofferenza perché siamo tutti poveri e fragili davanti a Dio». A tu per tu con il nuovo superiore generale dei sacerdoti del Cottolengo

Padre Carmine Arice

Eletto a settembre sedicesimo superiore generale dei sacerdoti di san Giuseppe Cottolengo e padre della Piccola casa della Divina Provvidenza, padre Carmine Arice è tornato, in qualche modo, nella sua famiglia di origine, dopo aver svolto, per cinque anni, l’importante servizio di direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei.

«Torno a Torino con un respiro ecclesiale più ampio», confida. Del resto, proprio nel Cottolengo ? istituto fondato nel XIX secolo a Torino da san Giuseppe Benedetto Cottolengo, più conosciuto con il nome di Piccola casa della Divina Provvidenza ? padre Carmine è cresciuto.

L’ESORDIO COME VOLONTARIO
«Sono nato a Manfredonia, in Puglia», ricorda. «Nel 1974, quando avevo dieci anni, la mia famiglia si è trasferita a Torino e qualche anno dopo iniziai a svolgere, con alcuni amici, un’attività di volontariato al Cottolengo. Così, quando maturai la decisione di diventare sacerdote, con il desiderio di mettermi a servizio dei malati, la Piccola casa fu un approdo quasi naturale. Inoltre, in quegli anni avevo vissuto un’esperienza molto forte all’interno dell’Unitalsi, accompagnando i malati a Lourdes, e il Cottolengo mi sembrava un modo per vivere tutto l’anno la “mia” Lourdes quotidiana».

Continua padre Arice: «La vicinanza degli ospiti malati mi interpellava, mi poneva una forte domanda di senso sulla mia vita, alla quale mi pareva di dover rispondere mettendomi alla scuola di queste persone fragili. Sin dal primo giorno, quando nel 1984 sono entrato a far parte del Cottolengo, ho percepito che stare con le persone sofferenti era una grazia, ed era più grande il dono che loro facevano a me, rispetto al servizio che io potevo offrire loro».

Alla Piccola casa di Torino, e in altre realtà “cottolenghine” diffuse nel mondo, ci sono persone fragili, alcune delle quali con una grande disabilità fisica o mentale, che spesso hanno fatto di quella Casa la loro famiglia. «Conosco ospiti che vivono con noi da oltre 50 anni», evidenzia padre Carmine. «Ed è importante che il nostro fondatore abbia voluto chiamare la sua opera “Casa”, non istituto o ospedale. L’esperienza accanto alla fragilità è fondamentale: mi spinge a recuperare ogni giorno l’essenziale della mia vita, che è l’amore».

Come diceva san Giuseppe Cottolengo ? e come recita il suo motto ? «la carità di Cristo ci spinge e ci tiene assieme»: «Ho avuto la fortuna di accompagnare tante persone ad accettare la propria malattia e in quel momento ho capito che, prima di tutto, io dovevo accettare le mie fragilità».

FARSI PROSSIMO
Camminare accanto agli altri, farsi prossimo: per il neosuperiore del Cottolengo occorre agire con un’attenzione particolare. «Per esempio di fronte a una persona disabile che è stata rifiutata dalla sua famiglia ? e noi, purtroppo, ne abbiamo diverse ? devi mostrare un cuore aperto. Gesù nella sua vita ha essenzialmente compiuto tre gesti: ha pregato, ha annunciato il Vangelo e si è preso cura dei malati. Così, la Chiesa è chiamata ad affiancarsi alla sofferenza non perché si tratta di “un’opera buona”, ma perché è la sua vocazione, nella consapevolezza che siamo tutti poveri e fragili davanti a Dio».

Dopo cinque anni di servizio per la Chiesa italiana, oggi padre Arice deve dare nuovo slancio alla sua congregazione: «In un momento di fatica economica si tratta di capire quali realtà mantenere e con quali significati. Può darsi che lo Spirito ? rendendosi evidente come carisma e come storia ? ci faccia comprendere che dobbiamo dare priorità ad altre situazioni, e che occorre chiudere qualche nostro centro».

Un’opera difficile, insomma, ma ricca di stimoli. Anche perché dietro a ogni azione c’è un volto, un sorriso, una lacrima. «Recentemente, dopo la Messa concelebrata a Santa Marta, il Pontefice mi ha detto: il Cottolengo è opera di Vangelo. Fin dall’inizio del suo ministero, Francesco ci ha sempre ricordato che siamo chiamati a costruire la Chiesa con gli “scartati”, coloro che non hanno neppure l’ultimo posto, che sono addirittura dietro agli ultimi».

Il Cottolengo, del resto, è nato proprio per dare una casa a coloro che non ne avevano altra. «Il 2 settembre 1827 una donna fu rifiutata dagli ospedali torinesi perché gravida e infetta», ricorda padre Arice. «Morì in una soffitta e san Giuseppe Cottolengo fu chiamato per darle i sacramenti: in quel momento, la sua vita di prete fu profondamente interrogata da questa esperienza. Così, pensò di realizzare una casa che potesse ospitare quelli che venivano scartati. Da allora, interpellato dalle varie povertà che incontrava, ha fondato tante famiglie per accogliere chi è fragile e solo».

LA CULTURA DELLO SCARTO
La denuncia di Francesco riguardo alla cultura dello scarto e il tentativo del Cottolengo, pur tra mille difficoltà, di prendersi cura proprio degli scartati, vanno nella medesima direzione. «Occorre avere ben chiaro un aspetto: la persona disabile non ha soltanto bisogno di essere curata e servita, ma di “sentirsi parte”. Non basta fornire la cura necessaria, è indispensabile che il malato si senta inserito nella comunità ecclesiale».

Proprio per questo, per esempio, è nata Meccanicotto, un’officina dove lavorano insieme ragazzi disabili e no. Un’iniziativa realizzata con l’apporto della Fca (Fiat Chrysler Automobiles): come ripete padre Carmine, «anche se noi dessimo ai malati le terapie migliori, ma non li aiutassimo nell’inclusione, per una dignità di vita che riconosce la loro presenza importante come la mia, non avremmo raggiunto lo scopo».

Un compito difficile tanto più nella società attuale in cui due povertà, gli anziani con patologie neurodegenerative e i pazienti psichiatrici, stanno crescendo sempre di più: «Dobbiamo capire quali risposte dare come Chiesa, perché rischiano di diventare i più poveri dei poveri, anche a causa dello stigma sociale cui sono sottoposti».

Padre Carmine non si arrende e affronta con caparbietà il suo futuro: «Sono sfacciatamente coccolato dalla Provvidenza», afferma. «Non c’è stato un giorno in cui non mi sia svegliato con la gioia e l’entusiasmo per il servizio che mi attendeva. Sicuramente ci sono stati momenti di difficoltà e di fatica non indifferenti, ma mai è mancata la grazia del Signore nella mia vita. Ricordo quando la famiglia del Cottolengo si è stretta attorno a me per la mia ordinazione sacerdotale, o quando è morto mio padre: sembrava fosse morto il papà di tutta la famiglia cottolenghina».

Loro, le persone con disabilità e i malati, sono stati una presenza costante nella vita di padre Carmine: «Il sacerdote del Cottolengo che vive in queste realtà ha la possibilità di entrare nell’intimità della coscienza delle persone, e si costruiscono storie che sono di una bellezza grande, ma anche di immensa delicatezza e, mi permetto di dire, di una sacralità unica». Perché ogni vita umana è degna di essere vissuta.

IL COTTOLENGO
La Piccola casa della Divina Provvidenza, fondata da san Giuseppe Cottolengo, comprende suore, fratelli, sacerdoti e laici che si prendono cura delle persone povere, malate e abbandonate. Il Cottolengo è presente a Torino, dove c’è la casa madre, e in Svizzera, Kenya, Tanzania, Etiopia, India, Ecuador e negli Stati Uniti.

Testo di Agnese Pellegrini Foto di Paolo Siccardi/Walkabout

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