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Padre Giancarlo Politi
La malattia non toglie umanità
Missionario del Pime, giornalista, padre Giancarlo ha vissuto a lungo in Cina. Nella sua vita il morbo di Alzheimer è arrivato come un intruso non previsto. A Credere racconta come lo sta affrontando. Con l’aiuto degli amici, del suo medico e della fede
«È successo d’estate. Cominciavo ad avvertire qualche segnale, ma non riuscivo a mettere a fuoco quello che mi stava accadendo. È seguito un periodo difficile, di almeno un paio di mesi, durante i quali non andava bene niente. Davo la colpa agli altri: “Non sono disponibili, mi scansano”. Poi è arrivata. E la cosa più importante è stata guardarla». “Lei” è la malattia, il morbo di Alzheimer. Non capita spesso che chi la vive in prima persona ne parli. Padre Giancarlo Politi, missionario del Pime, l’ha fatto per la prima volta qualche mese fa con il suo medico curante, la dottoressa Silvia Vitali, direttore dell’Istituto geriatrico Golgi di Abbiategrasso, in un’intervista video pubblicata sul sito della Federazione Alzheimer Italia.
Alla fine del video si era rivolto a chi vive la sua stessa situazione: «La malattia non toglie l’umanità di una persona. Si è padri, madri o fratelli anche da ammalati. Non piangetevi addosso. Le medicine sono solo una parte della vita. Ciò che conta è la bellezza dell’esistenza». Oggi padre Giancarlo ha accettato di tornare a parlarne con Credere, alla vigilia della Giornata mondiale del malato dell’11 febbraio. Originario di Abbiategrasso, in provincia di Milano, 74 anni, è stato missionario a Hong Kong per 23 anni e poi direttore della rivista Mondo e Missione. Sacerdote da 51 anni, giornalista dalla mente brillante, profondo conoscitore della lingua e della cultura cinese, negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con «un intruso non previsto», che gli ha fatto vivere momenti di totale disorientamento. Il morbo di Alzheimer è nelle sue prime fasi, tenuto a bada dalle terapie.
Da poche settimane padre Giancarlo vive in comunità con altri sacerdoti nella casa del Pime di Lecco, che accoglie chi è anziano o bisognoso di cure. Parla lentamente, usando parole semplici ed essenziali. Gli capita di perdere il filo del discorso. «Quello che mi pesa di più è non trovare le parole», confida.
Quando si è accorto della malattia?
«È successo durante l’estate di due anni fa. C’erano stati diversi segnali, ma li sottovalutavo. Avvertivo però un cambiamento da parte degli altri nei miei confronti. Ne davo la colpa a loro, ma in realtà non stavo bene con me. Poi un giorno – ricordo persino il luogo dove mi trovavo in quel momento – ho pensato una cosa semplicissima: “Sei inquieto per il lavoro o è qualcos’altro? Se fosse solo il lavoro troveresti una soluzione. Ma allora cosa potrebbe essere?”. E poi è il Signore che ti aiuta. Di seguito è venuto un altro pensiero, altrettanto semplice: “Adesso tocca a te guardare la realtà e dare fiducia agli altri”. E quella che è nata in me è stata una nuova possibilità di vita, il desiderio di essere presente in un modo diverso. È stato tutto molto semplice. “Tutto qui?”, mi chiede spesso la mia dottoressa mentre le parlo. Sì, tutto qui. Tutte cose semplici. Ma le cose semplici e piccole hanno bisogno di attenzione».
Chi l’ha aiutata?
«Gli amici. È diventato più facile agganciare un amico, vecchio o nuovo non importa. Una persona che capisce che si può stare insieme in modo sereno, senza problemi».
Com’è avvenuta la decisione di farsi curare, di andare da un medico?
«La mia domanda è stata: “Sono disponibile a rinunciare a guardare da adulto questa cosa che mi sta succedendo?”. La risposta è stata “no”. Anche se costa. Perché, quando senti sulla tua pelle la malattia, è dura. E anche dopo la decisione di affrontarla, resti titubante. Ti chiedi ancora se sia vero o no, cosa puoi fare, come sarà… C’è voluto del tempo per accettare questa nuova situazione. Avevo bisogno di imparare a scegliere. Perché scegliere è necessario, finché si è in tempo. Non c’è verso di dire: “Ci penserà qualcun altro”».
Come ha incontrato la dottoressa che la sta seguendo?
«Per caso, ad Abbiategrasso, sempre quell’estate di due anni fa. Ero a pranzo da amici e siamo andati a fare una passeggiata nei campi, che ci sono ancora. L’abbiamo incrociata e ci siamo fermati a parlare. Io sono stato all’estero per molti anni, ma certe amicizie sono rimaste. Sei alla ricerca di qualcuno che possa aiutarti, ma sei in affanno, perché non è il tuo campo. Soprattutto non è il tuo campo umano. Ma a un certo punto ho capito che se non avessi rotto questo muro, avrei continuato a rimandare, a trovare giustificazioni».
La sta aiutando?
«Sì, è bravissima. Lei non è credente. Quando parliamo c’è una linea oltre la quale non si va. Ma c’è un grande rispetto. Non servono tante parole».
Com’è cambiata la sua vita?
«A un certo punto ho parlato con le mie due sorelle. Ho detto loro: “Io adesso mi fermo, perché qui non stiamo giocando a fare il missionario. E quello che sta succedendo è qualcosa di molto reale. Cambia la mia vita ma anche la vostra”. Eppure anche lì c’è stata… forse non proprio la bellezza… ma la semplicità di dire: “A noi sta capitando questo”. So che non andrò più a fare chissà cosa. Spero che la malattia abbia un decorso che mi rispetti fino in fondo, però non è detto che sia così».
Ha paura?
«Certo. Però, quando si sceglie, “lo Spirito vi dirà cosa dovete fare”. E quindi lascio a lui la gestione di questa fase».
Cos’è la fede per lei?
«Tenere presente che il Signore si intrufola nella vita. Nella mia, nella tua… Poi c’è quella scontentezza di tutti i giorni che si annida lì… sulla soglia, come dice la Genesi. Ma so che è presente. Lo ha detto lui».
Quando ha scoperto di avere questa vocazione?
«A diciotto anni. C’era un gruppetto di donne impegnate nella parrocchia e c’era questa Ancilla… era veramente una santa donna. Sognava che io diventassi prete, anche se non me l’ha mai detto. Mi dava dei libretti da leggere».
La sua dottoressa, le sue sorelle, questa signora Ancilla. Le donne sono state importanti nella sua vita?
«Sì, è vero. È così. È semplicemente bello».
E la missione?
«A me è sempre piaciuto l’atlante. Andare a curiosare sulle mappe mi permetteva di sognare. Poi ha cominciato a intrufolarsi la presenza del Signore».
È sempre stato missionario a Hong Kong?
«No. Ero stato destinato all’India, ma ci rimasi solo cinque mesi. Poi un giorno passò di lì il superiore e mi disse: “Ti cambio destinazione”. C’erano stati problemi burocratici e fui mandato a Hong Kong. In un giorno cambiò la mia vita».
Come ha fatto a fidarsi che fosse la volontà di Dio?
«Non potevo fare altrimenti. Il motivo credo sia una Persona alla quale non vuoi rinunciare».
Oggi cos’è per lei la “volontà di Dio”?
«Innanzitutto credo sia la stessa per tutti. È il mistero della croce. Che passerà prima o poi dentro la tua storia personale. E la croce deve passare. Ma non è la croce di cui parliamo… spesso a sproposito. La croce è vivere per Cristo».
Cosa significa per lei oggi essere missionario?
«Essere contento di me, della mia vita. Noi continuiamo a ripetere che siamo evangelizzatori, che siamo per il primato dell’evangelizzazione. In realtà non facciamo nulla. Adesso mi rendo conto che si parte da qui, dalla vita concreta. Lo vedi anche nelle prediche: quando parli della vita vera, la gente ti ascolta. Perché quello che è importante per me, lo è anche per gli altri. La domanda è: “Tu sei contento?”. Non è qualcosa di esteriore. È qualcosa che, se non c’è, non puoi vivere».
Come vive la sua vocazione oggi?
«Qui con noi in comunità c’è un uomo che è arrabbiato con il mondo. Ha fatto un’operazione e gli hanno leso un nervo dell’orecchio. Ce l’ha con tutti, con i preti... E di motivi ne ha fin troppi. Ieri gli ho detto: “Oggi mi hai fatto vedere che sei impaziente, e maleducato”. Ma poi gli ho anche detto: “Non è vero che il Signore ti ha dimenticato. Non è vero…”. E il nome… è ancora quello di Cristo».
LA GIORNATA - PIÙ ATTENZIONE AI MALATI
Sabato 11 febbraio, memoria della Beata Maria Vergine di Lourdes, si celebra la venticinquesima Giornata mondiale del malato. A istituirla, nel 1992, fu san Giovanni Paolo II, Papa che visse a lungo sulla sua pelle la sofferenza e la malattia. «Le sue intenzioni andavano oltre la memoria liturgica», spiega don Carmine Arice, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute. «Erano tante le parrocchie e le diocesi nelle quali si era instaurata la buona pratica di pregare, l’11 febbraio di ogni anno, con e per i malati, ritenendo il santuario di Lourdes luogo e insieme simbolo di speranza e di grazia. Egli colse l’occasione per favorire lo sviluppo di una pastorale verso i malati e i sofferenti ordinaria ed efficace e richiamare il dovere della comunità cristiana al servizio dei malati e dei sofferenti come parte integrante della sua missione». Per aiutare le comunità a tradurre in pratica l’attenzione ai malati, quest’anno l’Ufficio della Cei per la pastorale della salute ha pubblicato un volume dal titolo Come il samaritano (Edizioni San Paolo). A cura di don Carmine Arice e disponibile nelle librerie cattoliche, il sussidio raccoglie le testimonianze di chi conosce da vicino l’esperienza della malattia ed è pensato per la formazione degli operatori pastorali e l’animazione nelle diverse comunità ecclesiali. «La solitudine, che è il cuore di ogni malattia, ci aiuta a guardare dentro di noi, a distaccarci dal richiamo della vita esteriore e a seguire il cammino misterioso che porta alla nostra interiorità», si legge nel capitolo curato dallo psichiatra Eugenio Borgna. Info: www.sanpaolostore.it
Testo di Emanuela Citterio