N. 9 2014 2 marzo 2014
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L’uomo che si fece pellegrino

Ha cominciato a fare strada sull’onda dell’entusiamo. Poi è partito da Canterbury, destinazione Roma: «Camminando mi sono chiesto se valeva la pena trasmettere la fede alle mie figlie. Ho capito di sì»

 

Enrico Brizzi, il pellegrino

Lungo la via francigena Enrico Brizzi, 39 anni, in tre mesi è andato a piedi da Canterbury a Roma. Foto di Renzo Pesce/Contrasto.

A 16 anni le prime scorribande a piedi sugli Appennini, a venti la scarpinata Bologna-Adriatico, a trentadue la Via Francigena. Enrico Brizzi, 39 anni, oltre a essere uno scrittore tra i più noti in Italia è anche un grande camminatore. Meglio, un camminatore che nel tempo è diventato pellegrino. Perché dopo la traversata da Canterbury a Roma Brizzi non si è fermato, e i sentieri della vita – e della fede – lo hanno portato da Roma a Gerusalemme.

Brizzi, da dove nasce la passione per il cammino?

«Me l’ha trasmessa mia madre. Da mio padre invece ho assorbito l’approccio da storico. Poi sono stato scout e con l’Agesci ho imparato davvero ad apprezzare la strada».

Quale valore ha per lei il camminare?

«Mi ricorda che non siamo immortali. Quando ho iniziato, da ragazzo, mi sono reso conto di non essere speciale: il cammino rende l’uomo meno lupo, in fondo siamo tutti così simili».

Cosa spinge a mettersi in cammino?

«Rispondo secondo la mia esperienza: a vent’anni l’entusiamo, a trenta il dimostrare a se stessi cosa si può fare, a quaranta la bellezza. Il mio camminare è cambiato molto: oggi è meno fisico e più interiore, mi godo i giorni di strada in pienezza».

Come è diventato pellegrino?

«Dieci anni dopo le prime escursioni con i soliti compagni abbiamo iniziato a sentire la consacrazione alla strada e da lì sono nate l’idea della Via Francigena e del viaggio sacro».

Qual è la differenza fra un trekking e una via sacra?

«La via sacra è un itinerario speciale, qualunque sia la posizione spirituale da cui si parte è fatale che si vada a lavorare sulla dimensione interiore. Tutti rimangono turbati, l’ateo come il praticante, l’esordiente come chi è al settimo pellegrinaggio».

Cosa succede quando si cammina?

«È come se si schiarisse la strada, si riescono a prendere decisioni sulla propria vita con lucidità. Si gode l’isolamento, l’atmosfera spartana, la gioia è trovare l’ombra di un albero sotto cui mangiare. Sei vicino a quello che ai primordi della vita era importante».

Cosa le ha lasciato la Via Francigena?

«Mi ha fatto capire che per me era finita l’epoca in cui mi poteva piacere il bianco e il nero, che entravo in una fase di scelte per me e per le mie figlie (ne ha quattro, ndr). Mi sono interrogato sull’opportunità o meno di parlare loro di Gesù, che poi significa essere cristiano o no, e la risposta è stata sì. Sarebbe assurdo non cercare di trasmettere ai figli ciò che hai intuito, anche se sei un peccatore. Poi con i miei compagni abbiamo anche capito che il viaggio non finiva lì. Dopo due anni siamo partiti alla volta di Gerusalemme: quando sono arrivato davanti alle mura della città santa mi sono messo a piangere».

Cosa racconta di Gesù alle sue figlie?

«Non c’è bisogno di essere teologi per parlare di Gesù. Quando mio nonno è morto, a 99 anni, ha lasciato a ogni nipote una bottiglia di vino e una Bibbia, non un biglietto per le giostre a Gardaland. Queste sono cose che anche i bambini possono capire: non racconto alle mie figlie che il nonno era un uomo perfetto, ma che amava stare in compagnia e aveva una grande fede».

Lei da chi ha ricevuto la fede?

«Tutti i miei nonni sono stati importanti: avevano una fede intuitiva, vecchio stile, non sapevano vivere lontano dalla comunità, per loro il don era il confidente: quando lo invitavano a pranzo a casa era una festa. Poi i loro figli un po’ hanno perso queste consuetudini, ma il sapere che lì, nella fede, c’era qualcosa di buono, è rimasto ed è arrivato fino a me».

Nel camminare come nella fede spesso ci sono momenti di stupore...

«Uno su tutti, l’arrivo alla cattedrale di Reims, in Francia: ho provato una sensazione di sollievo, di quiete cristiana, al termine di giornate dolorose in cui avevamo attraversato i campi di battaglia della Prima guerra mondiale. Camminare è un modo di pregare. Si pensa e si lascia che la mente vaghi. Nel cammino non esiste il tuo profilo pubblico, puoi dimenticarti come ti chiami, sei solo un uomo lungo la strada, non importa che lavoro fai o se hai rilasciato cento interviste».

In Jack Frusciante è uscito dal gruppo scriveva «siamo davvero cristiani per modo di dire, e la fede è un’altra cosa». Cosa era per lei la fede da ragazzo?

«Era l’interrogarsi sull’esistenza della vita eterna. Crescendo, la fede ha avuto più a che fare con l’aspetto morale e con domande del tipo: “Perché è giusto non rubare, o mentire, anche se nessuno ti punirà?”».

Giovani e fede, lei spesso incontra gli studenti. Quali esperienze significative consiglia loro?

«L’ho sperimentato con gli scout, il volontariato! In un’età in cui vuoi essere “fichissimo” rendersi conto che ci sono ragazzi in difficoltà, anche solo con lo studio, è un buon bagno di umiltà, buon senso e carità».

Secondo lei perchè il Cammino di Santiago è diventato così famoso?

«In un’epoca in cui non c’è niente di sacro, penso che la moda dei cammini sia da ricondurre al fatto che tanti anelano al sacro. In ogni caso sono sbigottito davanti al successo di Santiago, squilibrato rispetto agli itinerari verso Roma e Gerusalemme. Comunque basta levare la patina di superficialità e il sacro si trova dappertutto».

Dia un consiglio ai lettori, come ci si prepara ai pellegrinaggi?

«Direi cominciando con lo studio delle fonti e predisponendo l’itinerario, io faccio così. Poi, solo quando ho sistemato tutto, mi sento pronto per cominciare il viaggio».

Meglio mettersi in cammino quando si sta bene o quando si attraversa un momento difficile?

«Sta a noi decidere di fare il passo, è la forza di volontà a spingere fuori di casa. Invito tutti coloro che devono prendere decisioni, o si sentono vicini alle cose più profonde, a iniziare a camminare. Il cammino però parla se non posti ogni dieci minuti una foto su Facebook. E poi solo così, una volta rientrati in città, ci si sentirà fortunati per l’acqua in casa. Sì, proprio lei, quella che sulla colline della Giudea avevi tanto desiderato».

Testo di Laura Bellomi

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