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Prestiamo le nostre mani al crocifisso per accarezzare l’uomo
Le raffigurazioni di Cristo in croce sono immagine di Dio che assume su di sé i dolori del mondo. Anche noi siamo chiamati…
Ite, missa est di Enzo Romeo
Prestiamo le nostre mani al crocifisso per accarezzare l’uomo
Le raffigurazioni di Cristo in croce sono immagine di Dio che assume su di sé i dolori del mondo. Anche noi siamo chiamati a lenire le ferite dei fratelli sofferenti
Nella basilica di Saint-Julien de Brioude, nell’Alta Loira francese, c’è un’immagine del Cristo in croce che risale alla fine del XVI secolo. Fu scolpita in legno policromo, a grandezza più che naturale, per l’antico lebbrosario medievale. Lo chiamano il Cristo lebbroso, perché sulla pelle ha le tipiche alterazioni che provoca il morbo di Hansen.
È l’apice della solidarietà: il Salvatore prende le sembianze dei più reietti tra i malati, gli ultimi tra gli ultimi. Secondo una leggenda, un lebbroso si sarebbe steso su questa croce pregando per la propria guarigione e condensando così la sua malattia nell’immagine lignea. Sul volto emaciato c’è l’angoscia oscura dell’amore lacerato; i piedi e le mani tetanizzati sono fissati al palo dai chiodi piantati dall’umanità che lui ha pure curato senza risparmio.
Anche a Issenheim, in Alsazia, la pala d’altare dipinta da Matthias Grünewald presenta Gesù in croce con le piaghe del “fuoco di Sant’Antonio”. Il committente dell’opera, l’abate antoniano Guido Guersi, voleva che i suoi monaci e i tanti malati di herpes zoster accolti nel monastero contemplassero le proprie piaghe in quelle del Signore. Egli ci ama spingendosi fino al limite estremo delle nostre infermità e rompe la legge antica del Levitico, che condannava all’esclusione e all’isolamento. Per questo il lebbroso del Vangelo di Marco osa accostarsi al Maestro e urla a gran voce: «Se tu vuoi, puoi purificarmi!».
Quel crocefisso siamo noi, è lì che si fissano i dolori, lì si raccolgono le ulcere, lì si rinnovano le speranze, nell’incrocio tra terra e cielo, tra orizzonte e vertice. Recita una preghiera trecentesca fiamminga: «Cristo non ha labbra, ha soltanto le nostre labbra per narrare di sé; non ha mezzi, ha soltanto il nostro aiuto per raggiungere gli uomini. Noi siamo l’unica Bibbia che i popoli leggono ancora, siamo l’ultimo messaggio di Dio scritto in opere e parole». Se Cristo ha le mani inchiodate, prestiamogli le nostre perché possa dare una carezza al mondo.
Illustrazione di Emanuele Fucecchi