N.12 2015 22 marzo 2015
Sommario 12 - 2015

Credere n. 12 - 22/03/2015

Insieme di don Antonio Rizzolo

Un Giubileo della misericordia per lasciarci sorprendere da Dio

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Vincenzo Nibali

La salita morde? E allora io prego

«In gara invoco Dio, recito il Padre nostro e l’Ave Maria, come ho imparato da piccolo: da bambino chiedevo la vittoria,…

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Apriamo le finestre

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Per una lettura completa...

Vincenzo Nibali

La salita morde? E allora io prego

«In gara invoco Dio, recito il Padre nostro e l’Ave Maria, come ho imparato da piccolo: da bambino chiedevo la vittoria, oggi protezione per tornare a casa salvo». A tu per tu con il vincitore dell’ultimo Tour de France.

 

In foto: Monia Pinzaglia con Papa

In foto: Vincenzo Nibali al gito d'Italia del 2013.

Il nome di Vincenzo Nibali da Messina è oggi sinonimo, ben oltre i confini italiani, di «asso del ciclismo»: vincitore della Vuelta di Spagna nel 2010, maglia rosa al Giro d’Italia nel 2013 e maglia gialla nell’ultima edizione del Tour de France, disputata nell’estate 2014, Nibali ha già scritto il proprio nome fra quelli dei grandissimi campioni d’ogni epoca.

È infatti uno dei soli sei corridori a essersi aggiudicato tutte e tre le grandi corse a tappe nazionali: prima di lui ci sono riusciti soltanto Anquetil e Felice Gimondi negli anni Sessanta, il «Cannibale» belga Merckx nel 1973, Hinault nel 1980 e – unico rivale in attività – lo spagnolo Contador. Alla luce di questi risultati, ben si capisce come il campione siciliano rappresenti oggi per gli appassionati del pedale un punto di riferimento e un modello. Modello che assume ancor più spessore alla luce della sua storia personale: Vincenzo è stato capace di guadagnare la ribalta negli anni immediatamente successivi a quel «medio evo del ciclismo» rappresentato dagli anni bui del doping generalizzato, ed è schierato da sempre in prima persona a favore di un ciclismo pulito.

Nato nella città dello Stretto nel novembre 1984, è stato cresciuto insieme ai fratelli Carmen e Antonio dalle cure amorevoli di mamma Giovanna e di papà Salvatore, grande appassionato delle imprese di Moser. Una volta compiuta la trafila riservata ai bambini e ai preadolescenti, a soli sedici anni ha lasciato casa ed è emigrato in Toscana presso la colonia ciclistica di Mastromarco, per tentare la via dell’agonismo di alto livello (e proseguire gli studi superiori) sotto la responsabilità del presidente del locale sodalizio ciclistico, Bruno Malucchi, e del tecnico Carlo Franceschi. I brillanti risultati ottenuti fra gli Juniores, con il titolo di campione italiano nel 2002, e gli Under 23, fra i quali diventa una presenza fissa nella nazionale di categoria, gli hanno aperto la strada del professionismo, gettando le basi per i futuri successi in Italia e all’estero.

Oggi Nibali è un uomo sposato e, da poco più di un anno, il padre di una splendida bambina chiamata Emma Vittoria; benché viva sempre con le valigie pronte per partecipare a gare in mezzo mondo, ciò che colpisce maggiormente nel conoscerlo è la sua calma da “bravo ragazzo all’antica”, che si riflette nella serenità dell’ambiente domestico. La gentilezza della sua giovane signora, Rachele, e la quieta allegria della piccola, che segue la nostra intervista dal seggiolone con aria curiosa e sorridente, completano il quadro di una giovane famiglia lontanissima dagli stereotipi delle tribù chiassose e fanfarone che circondano tanti sportivi di successo all’epoca dei social network.

In casa Nibali, nonostante l’arredamento sia impreziosito da trofei di assoluto prestigio, non sembra esserci nessuno spazio per il divismo. «In effetti non mi sento affatto un divo. Mi fa piacere regalare emozioni ai miei sostenitori e rappresentare un esempio per i ragazzini che vogliono impegnarsi per rendere realtà i propri sogni, ma questo non significa vivere sopra le righe. Sarà anche che il mio sport, a differenza di altri, è fatto soprattutto di tanto sacrificio – ore e ore in sella ogni giorno, dieta rigorosa e la fatica come compagna sin dall’adolescenza – e questo mi aiuta a tenere i piedi per terra. Ma, in fondo, non potrei vivere diversamente: vengo da una famiglia di lavoratori, unita e ancorata a principi molto solidi, e i miei cari sarebbero i primi a stupirsi se mi montassi la testa».

A proposito della tua famiglia di origine, come trascorrevi il tempo libero da bambino quando non eri a scuola o in sella a una bicicletta?

«I miei erano impegnati con il lavoro, ma ci tenevano che non mi perdessi a bighellonare dietro a cattive compagnie. Così, nel pomeriggio, quando non ero in negozio da loro o insieme ai miei cugini, frequentavo l’oratorio presso la chiesa di San Tommaso, dove sorge anche l’Istituto teologico dallo stesso nome. La figura più vicina a noi bambini era quella di don Loparo e, quando combinavo qualche marachella, i miei genitori mi minacciavano dicendo che Don Loparo mi avrebbe mandato in collegio… Ma non è mai accaduto! Nel fine settimana, invece, prima di cominciare a correre, ero quasi sempre al paese di mia madre, Venetico Superiore, a trovare i nonni insieme a una numerosa “colonia” di cugini: Venetico è un paese particolare perché ci sono tantissime chiese rispetto al numero di abitanti rimasti a vivere lì. I miei cugini servivano Messa come chierichetti, e anche lì la Chiesa svolgeva una funzione di aggregazione importante. Mi piacerebbe che anche mia figlia, un domani, potesse frequentare ambienti altrettanto sani e sicuri».

Il ciclismo, sport di fatica, in Italia ha storicamente un rapporto stretto con i valori tradizionali della fede; basti pensare alla devozione particolare di cui gode il santuario della Madonna del Ghisallo, patrona dei ciclisti italiani. La chiesetta nei decenni è stata letteralmente inondata di cimeli appartenenti ai campioni, al punto che è apparso inevitabile istituire al suo fianco un vero e proprio museo. E poi il Giro d’Italia fa spesso tappa al cospetto di importanti santuari, al Nord, come al Centro e al Sud.

«Al Sud un po’ meno che al Nord, a voler essere precisi, perché il Giro, purtroppo, spesso si limita a una toccata e fuga nel Meridione. Comunque è vero che il “popolo dei ciclisti” ha molti luoghi sacri nel proprio cuore, forse anche perché noi professionisti siamo chiamati a una vita un po’ particolare: la domenica, mentre gli altri si riposano e santificano la festa, noi siamo sempre in gara, e così siamo chiamati a interrogare la dimensione spirituale un po’ per conto nostro. D’altro canto, a forza di allenarci e correre per le salite di tutta Italia, abbiamo modo di conoscere parecchi posti speciali, appartati rispetto alle città. Quando penso ai luoghi sacri con i quali ho un rapporto particolare, mi viene in mente in primo luogo quello della Madonna di Dinnammare, arroccato a oltre 1.100 metri di quota sui “miei” monti Peloritani: con le sue rampe che superano il 20% di pendenza, la salita che conduce lassù si trasforma in un vero e proprio pellegrinaggio su due ruote.

In compenso la vista può spaziare dal Tirreno allo Jonio, il che lo rende un luogo capace di riconciliarti con te stesso. Sin da ragazzino, poi, sono legato al santuario di Tindari, detto “della Madonna Nera”, che si trova sulla costa settentrionale della provincia di Messina, a strapiombo sul mare, ed è legato alla devozione popolare della mia terra dai tempi in cui s’implorava protezione contro le incursioni saracene. Mia moglie, invece, è originaria della provincia di Frosinone – ci siamo sposati “da lei”, nella chiesa della Regina Pacis a Fiuggi – e la devo ringraziare anche per la scoperta più recente in ambito di luoghi sacri, quella del santuario della Santissima Trinità. Sorge presso Vallepietra, un minuscolo borgo dell’Appennino a ridosso del confine con l’Abruzzo; in estate vi si svolgono pellegrinaggi di fedeli che salgono lassù portando, per antica tradizione, la croce in spalla. Impressionante».

Le tue vittorie ti hanno permesso di raggiungere ribalte insolite per un ciclista: il presidente del Consiglio ti ha consegnato un premio additandoti come modello di comportamento per i ragazzi, e di recente hai calcato il palco del Festival di Sanremo. Eppure, continui a prestare gratuitamente la tua immagine per campagne di rilievo sociale…

«L’iniziativa che forse mi sta più a cuore è l’annuale pedalata solidale che si tiene a Messina a favore dell’associazione Amici di Edy onlus, fondata dal padre di un bambino affetto dalla sindrome di Duchenne e Becker. È un’occasione per ribadire il valore che il ciclismo può avere come fattore di socializzazione – ogni volta è un bel bagno di folla – e, allo stesso tempo, un modo per raccogliere denaro per la ricerca. Con l’edizione del gennaio 2015 abbiamo finanziato l’istituzione di un ambulatorio specifico per i pazienti affetti da distrofinopatie presso il Policlinico di Messina».

Un’ultima domanda, Vincenzo. Sei famoso per il tuo modo di condurre le corse in maniera ardimentosa, uno stile che ti è valso il soprannome di “Squalo”: scatti all’attacco senza troppi calcoli, e ti lanci in discesa in maniera spericolata. Ti capita di pregare mentre pedali durante una gara?

«Da bambini capita di invocare l’Altissimo per ottenere successi. Ma, crescendo, capisci che questo non ha senso. Non si deve pregare chiedendo in cambio la vittoria. Eppure in gara prego lo stesso, recitando fra me e me un Padre nostro e un’Ave Maria, come ho imparato a fare da piccolo. Non più per supplicare di arrivare primo, ma per invocare protezione. Al Cielo, infatti, non chiedo niente di più che poter tornare sano e salvo dai miei cari».

Testo di Enrico Brizzi

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