La situazione tragica della guerra in Terrasanta ci riguarda da vicino e ci tocca nel profondo. Ci sono una ventina di nostri ragazzi cattolici che sono militari che stanno combattendo nell'esercito. Preghiamo per loro, preghiamo con i loro genitori, preghiamo incessantemente per la pace»: così si esprime padre Piotr Zelazko 47 anni, sacerdote polacco responsabile del Vicariato di San Giacomo che, all’interno del Patriarcato latino di Gerusalemme, raduna le comunità cattoliche di lingua ebraica, immerse pienamente nella società israeliana. Fin dagli anni Sessanta del secolo scorso alcuni religiosi chiesero ai vescovi il permesso di poter pregare in ebraico. Quella piccola realtà, la Keillah (“comunità” in ebraico) è cresciuta, ha beneficiato del graduale miglioramento dei rapporti tra Chiesa cattolica e mondo ebraico dopo il concilio Vaticano II e ora conta comunità nelle principali città israeliane: Gerusalemme, Tel Aviv-Giaffa, Beersheva, Haifa e Tiberiade, coinvolgendo in tutto circa un migliaio di fedeli (incluse due comunità di lingua russa, giuridicamente appartenenti al Vicariato).
La presenza di queste comunità in Terrasanta ha un senso profondo: quello di «essere cristiani nel cuore della società israeliana, utilizzando la lingua ebraica, testimoniando all’interno della Chiesa universale l’importanza delle radici ebraiche della nostra fede», spiega a Credere padre Piotr Zelazko.
Guardando al futuro, i fedeli di lingua ebraica sognano e s’impegnano «a realizzare la pace perché un giorno, in questa terra benedetta, i diritti di tutti siano rispettati, tutti possano avere una casa, nel riconoscimento della dignità umana. In una terra», conclude padre Zelazko, «dove nessuno dica “Questa terra è mia”, ma tutti sappiano convivere e condividere perché qui siamo tutti ospiti. In questa terra dove siamo chiamati a vivere tutti, israeliani e palestinesi, in pace, rispetto, armonia».
Di Paolo Affatato
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