N. 10 9 giugno 2013
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Una storia di conversione

Ho incontrato Cristo in carcere

Per Cristo nessun luogo e nessuna persona sono troppo lontani per non essere raggiunti dal suo amore. Lo dimostra la storia di Armand, giovane detenuto albanese, che il 25 maggio scorso è stato battezzato nel carcere “Due Palazzi” di Padova

Ciro Manzo

Foto di Alberto Bevilacqua.


Con i loro gesti i detenuti hanno tradito la fiducia della città e lei li ha dimenticati, relegandoli ai suoi confini: forse per questo le carceri si ama costruirle in periferia. Eppure, come scrisse Joshua – un detenuto nel carcere di Nashville, negli Stati Uniti – il loro cuore batte per le stesse cose per cui battono i cuori degli altri uomini. Perché la presenza di Dio ama abitare i bassifondi della storia e illuminare i brandelli dell’umano: in ogni caos l’uomo abiti, quello sarà il punto di ripartenza per tornare da lui. Nonostante la sua Grazia, per chi la guardi da fuori, non sia sempre comprensibile.

Armand, detenuto presso il carcere “Due Palazzi” di Padova, ha trentasei anni all’anagrafe e tante cicatrici addosso: fisiche e nell’anima. Vent’anni fa ha lasciato l’Albania – terra di contadini e di miseria – per tentare la fortuna e alleviare la povertà di casa. Il gruzzolo di soldi guadagnati in Grecia gli è servito per un viaggio di fortuna con destinazione l’Italia. Una vita da irregolare, la fatica della sopravvivenza e un terribile incidente automobilistico gli hanno lasciato addosso tracce indelebili: abitare l’illegalità da quel giorno divenne per lui l’alfabeto col quale sopravvivere.

Tante pagine della sua storia sono state scritte con l’inchiostro della rapina e della delinquenza, del sospetto e dell’angoscia. Per tanti anni. Il carcere, però, insegna che chi è abituato a darle, quando le subisce rimane sbigottito, perché non aveva calcolato la possibilità. In galera Armand ha dovuto fare i conti col fascino irruento del Cristo dei Vangeli: l’aveva atteso nel “deserto” della reclusione per parlare al suo cuore. Nascosto dietro il volto e le storie di chi, quand’era perduto, gli ha dato fiducia, ha instillato nel suo cuore la certezza d’essere un figlio amato, cercato, voluto.

Col lavoro (presso la Cooperativa Giotto) ha riacquistato la sua dignità di uomo, col Vangelo ha ritrovato quella gioia del cuore che è la garanzia del messaggio cristiano. Fino a percepire l’assurdo nella sua vita, sulla scia di sant’Agostino: senza l’esperienza dell’errore, probabilmente Cristo sarebbe rimasto un “forestiero”.  «In questi anni di galera – confessa Armand-Davide – sto capendo come il mio arresto sia stato un dono di Dio, dal momento che era l’unico modo per poter fermare la mia discesa agli inferi».

D’altronde il buon ladrone del Vangelo qui dentro è un “santo patrono” di quelli tosti: in quel lontano primo Venerdì santo della storia, insegnò all’uomo che una vita intera si può giocare e ribaltare in pochi attimi, basta riempirli di cose grandissime. Comprendere dunque il male senza mai giustificarlo è l’alfabeto per poter contemplare e gustare le scorribande di Dio, all’opera sin dentro i misfatti più complicati dell’uomo.

Come padrino ha scelto Bledar Giovanni, ergastolano albanese che due anni fa ha ricevuto pure lui i sacramenti dell’iniziazione cristiana dentro il carcere: «Essere stato battezzato nel nome di Gesù Cristo mi ha cambiato la vita – riflette Bledar-Giovanni –. Ogni cosa che prima facevo ora non ha più nessun senso per la mia vita. Armand mi ha chiesto tante volte di fargli da padrino, ma non mi sentivo all’altezza. Poi ho ceduto: ci siamo abbracciati forte e oggi il mio cuore è in festa per questo fratello che ora è legato a me anche da una storia di fede».

Sabato 25 maggio Armand ha ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana in carcere e ha scelto il nome di Davide, il giovane pastore diventato re d’Israele. «In questi tanti anni passati dietro le sbarre – continua Armand-Davide – ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno amato e, facendomi riflettere sui miei errori, stanno facendo di me una persona migliore: è rimanendo a contatto col bene che mi sto rendendo conto del male fatto». È stata la conclusione di un cammino durato anni: una memoria rielaborata, una storia riaggiustata, un male riletto e dal quale ha preso le distanze. È stato anche l’inizio di un nuovo percorso: quello che lo vedrà testimone coraggioso della Grazia tra il ferro e il cemento di una comunità, reclusa al mondo ma aperta all’inedito dell’Eterno.

«Le conversioni spettano al buon Dio – dice Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa Giotto che offre lavoro ad oltre cento detenuti –, a noi viene chiesto di vivere appieno: il problema non è convertire qualcuno, ma vivere fino in fondo la propria identità dando la possibilità all’altro di interrogarsi. In questo senso il lavoro è un valore aggiunto, una soddisfazione che aiuta a ripartire. È ritrovare un’umanità anche dentro ambienti distanti e brutti. Il lavoro per noi – conclude – è anche una sfida: scommettere sull’uomo a partire dal nostro incontro con Cristo».

La gioia di uno è la gioia di un’intera comunità, seppur ristretta dentro le mura della detenzione. Terminato il Battesimo, una decina di detenuti ha vestito i panni del pellegrino e si è mescolata con le migliaia di fedeli che la notte hanno percorso il pezzo di strada che congiunge Camposampiero (Pd) con la basilica del Santo, cuore della città di Padova: l’ultimo tratto di strada solcato dal frate in punto di morte. A lui – che passando anonimo tra la gente conobbe il fascino dell’effimero e si impegnò strenuamente per la riconciliazione tra le genti – si sono aggrappati a nome di tutti. Perché camminare è fare i conti con la polvere, fare pace con la terra, condividere e avvertire la stanchezza con l’eco dei passi altrui come sottofondo: una meravigliosa metafora del cammino di liberazione e di rieducazione di questi detenuti.

La notte per anni è stata loro alleata nello sfidare la legge e deturpare l’umano; stavolta è diventata lo spazio di una possibile riconciliazione tra il carcere e la città, tra coloro che l’hanno tradita e colei che invece li ha dimenticati. Per anni hanno arredato la loro cella col grosso rischio di confonderla con il mondo: troppi di loro ogni giorno ci riescono. Poi Qualcuno ha aperto loro la finestra: da quell’incontro col Risorto – anticipo di una possibile risurrezione anche per queste persone – non hanno più accettato di barattare la luce dell’abat-jour con quella del sole. E qualcuno s’è rimesso in piedi, per camminare a nome di tutti e poi cantare ovunque quella luce e quell’«Amor che move il sole e le altre stelle». Dietro le sbarre esistono gli uomini malvagi, ma quelli infelici sono in numero molto maggiore: sono questi ultimi a sovraffollare il carcere. A volte, però, basta un incontro per cambiare la vita e rimettere in piedi esistenze deragliate, come quella di Armand-Davide. Perché in carcere il Vangelo è, prima di tutto, un anticipo di umanità nuova.

 

Testo di  don Marco Pozza
Foto di  Alberto Bevilacqua

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