N. 10 9 giugno 2013
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Padre Paolo Dall’Oglio

Sentinella della guerra in Siria

Ha vissuto trent’anni in Siria e proprio un anno fa, nel pieno della guerra, è stato espulso dal regime. Sostiene: «La pace nel mondo dipende dalla riconciliazione tra le correnti musulmane»

 

Padre Paolo Dall'Oglio

Foto di Ivo Saglietti.

A chi mi chiede com’erano i rapporti tra musulmani e cristiani in Siria prima della guerra, racconto spesso la storia di Khalil, un giovane siriano musulmano. Mentre si trovava in una prigione dei servizi di sicurezza di Assad, è stato appeso nudo con ganci di ferro al muro in modo da toccare terra solo con la punta dei piedi. Dopo alcuni giorni lo hanno gettato in una cella affollata da poveri disgraziati, e tutti pensavano fosse morto. Poi due ragazzi si sono strappati brandelli di abiti per farne bende e medicargli le piaghe. Khalil ne è uscito vivo e ha poi saputo che quei ragazzi erano cristiani».

Il racconto – uno dei tanti che ti snocciola con la sua parlata calda e coinvolgente – è di padre Paolo Dall’Oglio, un uomo e un religioso difficile da “inquadrare”: ha passato una vita a inseguire dialogo e riconciliazione, ma non parlategli di vie di mezzo o compromessi. Nel titolo di un suo libro si è definito innamorato dell’islam, ma credente in Gesù; è gesuita (dunque con dovere di obbedienza al suo superiore) ma, come fondatore di una comunità religiosa, a sua volta è “superiore”.

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Quel che è certo è che la voce di padre Dall’Oglio è una delle più carismatiche e insieme più discusse tra i cristiani in Siria. Sì, perché lui in Siria ha vissuto per oltre trent’anni fondando una comunità religiosa dedicata al dialogo islamo-cristiano, per poi essere espulso dal regime di Assad il 12 giugno 2012.

Soprattutto dopo la sua cacciata – che, seppure contro il suo volere, gli ha dato quella libertà di espressione divenuta impossibile in Siria – Dall’Oglio non ha nascosto il suo appoggio alla rivoluzione anti-regime, differenziandosi così nettamente dalle prudenze e dai distinguo di chi, specie tra le gerarchie ecclesiastiche siriane, teme una deriva fondamentalista della rivolta.

«È proprio identificando tutti i ribelli come terroristi – ripete da mesi – che si radicalizza il conflitto e si mettono in pericolo i cristiani. Condannare l’autodifesa dei siriani di fronte all’inumana repressione del regime è una scelta che viene capita immediatamente come un tentativo dei cristiani di salvare un regime criminale e sanguinario. Questo va a diretto discredito della Chiesa e mette in pericolo il suo futuro». Il ragionamento sembrerebbe non fare una piega, ma poi si scontra con una realtà fatta di rapimenti e uccisioni sempre più frequenti di cristiani (e non solo) da parte di milizie impazzite, ed è ormai appurata la presenza di cellule di Al Qaeda in Siria. «Questa violenza è inaccettabile – risponde Dall’Oglio – e la Chiesa lo ricorda giustamente a tutti. Ma non si deve dimenticare che anche quarant’anni di regime sanguinario degli Assad sono un orrore e non un paradiso della convivenza interreligiosa».

Quelle del gesuita non sono parole pronunciate da chi se ne sta al sicuro in qualche tranquilla città europea. Padre Paolo – dopo avere aperto una nuova comunità nel Kurdistan iracheno – è tornato in Siria, clandestinamente, a fine febbraio, vivendo per alcuni giorni con gruppi di ribelli. «Ho visto piccoli villaggi e quartieri di città rasi al suolo. L’esercito usa ordigni lanciati dagli aerei che producono distruzioni immani su un’area di quasi un ettaro. Fanno gli stessi danni di un missile scud, ma si può centrare meglio il bersaglio».

Chiediamo a Dall’Oglio se – riservatezza permettendo – può raccontarci qualcosa dei cristiani siriani incontrati: «Ho il ricordo di un vecchio moribondo incontrato in un villaggio. Una persona che era con me mi ha chiesto di benedirlo e siamo entrati in questa casa molto semplice, con le icone di carta di Maria e dei santi appiccicate al muro. Un figlio era morto in un bombardamento e un altro è stato ucciso. Il padre ottantenne è stato rapito e picchiato e ora è sul letto di morte. Abbiamo pregato in arabo insieme e mi ha detto che era sempre fedele alla Messa in parrocchia. Il prete non c’è più da mesi. Ormai si fanno i funerali senza passare dalla chiesa».

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La diaspora dei seguaci di Cristo è dunque l’unico destino possibile? «Questa situazione disperata in molte zone siriane ha provocato in effetti l’emigrazione di gran parte della popolazione cristiana e quelli che non hanno potuto partire sperano di poterlo fare al più presto. Si tratta di un’emorragia inarrestabile e dolorosissima. La mia impressione, tuttavia, è che i cristiani possano fare ancora qualcosa per salvare l’unità nella democrazia, ma devono separarsi dal regime e diventare propositivi. Più che le gerarchie, molto possono i cittadini siriani e i rifugiati all’estero». E lancia una proposta: il prossimo sabato 3 agosto, mentre per i musulmani è Ramadan, i cristiani, anche in Italia, osservino un giorno di digiuno e di preghiera «per la riconciliazione nella giustizia in Siria».

L’ultima domanda è forse banale ma inevitabile: cosa aspettarsi dal nuovo Papa? «Ho molta speranza in papa Francesco: mi permetto di suggerire che sarebbe estremamente opportuno che dicesse quanto la Chiesa prega e intende mettersi al servizio della riconciliazione tra i musulmani stessi, sciiti e sunniti. E non solo in Siria: questa guerra strisciante in atto dal Pakistan al Libano è una tragedia che avviene tra fratelli e rende spesso la vita e la testimonianza dei cristiani penosa e addirittura impossibile. La pace del mondo dipende pure, e molto, dalla pace tra i musulmani. Noi cristiani vogliamo metterci al servizio della pace».

 

Testo di Stefano Femminis
Foto di Ivo Saglietti

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